Tool_Kit Festival
Corpo_Forma_Immagine_Movimento
Un festival in evoluzione Articolo pubblicato online il 13/14/2011 per Festival Arte Contemporanea di Faenza
(Giada Pellicari è stata co-curatore del Tool_Kit Festival e curatrice del catalogo. Per riceverlo in pdf è sufficiente inviare una mail a giadapell@hotmail.it)
dalla volontà di creare una base di partenza e di esposizione per gli artisti emergenti in questa
materia. Poiché non volevamo impostare il Festival solo per gli esperti, abbiamo realizzato un
appuntamento gratuito e didattico a cui tutti potevano accedere, indirizzandolo anche a chi non
conosceva il settore in maniera specifica, al fine di dare maggiore visibilità a questa tipologia di
arte.
L’idea basilare del Tool_Kit Festival sta proprio nel suo titolo, il quale si riferisce alle applicazioni
tecnologiche utilizzate dagli artisti creatori d’arte interattiva. Ma l’aspetto più interessante sta nella
sua traduzione in “cassetta degli attrezzi”, che abbiamo ritenuto come una base concettuale per
evidenziare il percorso di ricerca insito in questo campo e soprattutto per delineare il primo step di
un nuovo festival, definibile in fieri.
L’esigenza di fondare un nuovo Festival legato all’arte interattiva, evidenzia come l’argomento ad
esso connesso sia di grande attualità: la contemporaneità della materia trattata e l’emergere di
appuntamenti legati a questo settore, nonché la dimensione sempre più immensa dello stesso
fenomeno, dimostrano come ci sia un’apertura verso questa tipologia di arte, normalmente non nota
al grande pubblico e, spesso, a conoscenza solo degli esperti.
Quando chi scrive partecipa all’idea iniziale di Martin Romeo, decide di modificare la sua visione
legata principalmente all’arte interattiva, cercando di ampliare gli orizzonti alle discipline afferenti
alla New Media Art e, soprattutto, volendo creare un ponte tra la New Media Art e l’arte cosiddetta
“istituzionale”, dato che molto spesso non vengono trattate negli stessi luoghi (siano essi luoghi
reali o teorici) ma lasciate agli antipodi e raramente esposte insieme.
L’arte interattiva, infatti, di solito viene ritenuta come una sottodisciplina della New Media Art; in
questo caso, invece, si vuole dare al termine un’accezione più ampia, che indichi il suo aspetto
relazionale, il quale si vuole vedere al Tool_Kit Festival come un legante sotteso a tutti i lavori.
In un approccio curatoriale verso una dinamica che lega ars e techne sono necessarie diverse visioni
e la coppia formata da un artista che pratica arte interattiva e da un curatore, diviene una matrice
fondamentale che rispecchia la visione olistica caratterizzante le stesse discipline della New Media
Art. È così che il lavoro dell’artista e quello del curatore diviene un tutt’uno, mescolando insieme
competenze artistiche, tecniche ed intellettuali.
I lavori in esposizione al Tool_Kit Festival sono stati di diverse tipologie: arte interattiva, ambienti
interattivi, arte non tecnologica, performance, videoarte e musica elettronica. In questo modo si è
creato un percorso tra le “opere”, che oltre che fisico, fosse anche di carattere concettuale e
rispecchiasse il legante e l’intera visione generale del fenomeno che si voleva dare in questo
Festival. La volontà di creare un’atmosfera buia all’interno dello spazio espositivo, inoltre, è servita
a realizzare un ambiente in cui il fruitore si immergesse completamente nei lavori, dove
passeggiando di stanza buia in stanza buia, lasciasse andare le perplessità e le inibizioni ed
interagisse nel percorso.
La risposta del pubblico è stata molto positiva e numerosa, di fatti il vernissage ha visto la
A+A|Centro pubblico per l’arte contemporanea di Venezia, il luogo che ci ha dato la possibilità di
creare l’evento, colmo di persone interessate al Festival. Questo per noi era l’aspetto fondamentale
alla riuscita dell’operazione, dato che le “opere” lì presenti funzionavano nel momento in cui il
pubblico comprendeva l’importanza del proprio ruolo all’interno del processo artistico, dove con il
suo atto diveniva parte integrante del momento di creazione e di attivazione del lavoro.
Le quattro giornate del Festival, si sono sviluppate in maniera intesa, poiché hanno visto esporre e
performare ventuno artisti provenienti da tutta Italia, artisti giovani ma già ampiamente parte del
panorama nazionale, che si sono succeduti sia negli interni che negli esterni della A+A.
I pomeriggi sono stati dedicati alla comprensione dell’arte interattiva e all’elemento didattico,
tramite dei workshop aperti a tutti, indirizzati alla conoscenza di alcuni dei principali software di
interattività basati su audio e video, come ad esempio VVVV e Reactivision, tenuti da Giovanni
Maria Troiano e Martin Romeo. Molti artisti e studenti hanno preso parte a queste lezioni, creando
insieme un momento di dialogo compartecipato sulla materia.
Il continuo cambiamento delle installazioni presenti ha creato un evento versatile che
corrispondesse alla esigenze di tutti i visitatori, i quali se tornavano più di una volta di sicuro
trovavano il Festival diverso, dato che i lavori esposti continuavano a cambiare.
Molta importanza per la riuscita dell’evento hanno anche avuto i vj set e le performance, che hanno
creato delle serate intense, in cui la musica elettronica si integrava completamente con l’aspetto
visivo, dato che in contemporanea venivano proiettate delle immagini sulle pareti. La terza giornata,
inoltre, è stata caratterizzata dall’elemento performativo, poiché abbiamo creato nell’arco di poche
ore una performance di musica elettronica, una performance di danza interattiva, un mapping
interattivo negli esterni e un vj set serale.
Sicuramente dopo questa buona riuscita si sta pensando anche a delle nuove edizioni del Tool_Kit
Festival. Martin Romeo, co-curatore dell’evento, infatti ritiene che: “Quello che ci aspettiamo per
la prossima edizione è dare maggiore spazio a lavori con performers, una forma di arte che si
relaziona con diverse espressioni ed integra al suo interno un tipo di sperimentazione in divenire,
poco praticata e poco vista in ambienti pubblici. Per la buona riuscita bisogna prefiggersi degli
obiettivi più grandi di noi stessi per poter realizzare qualcosa di questo tipo. Quello che ha reso
interessante un evento di questo tipo è stato la sua struttura sperimentale, dove ogni lavoro si
trovava a ricomporsi ed adeguarsi al nuovo spazio e al tipo di pubblico che si trovava lì davanti”.
Giada Pellicari
Tool_Kit Festival 2011
Corpo_ Forma_ Immagine_Movimento
Festival d'arte interattiva
A cura di Giada Pellicari e Martin Romeo
10-13 Marzo 2011
A+A| Centro Pubblico per l'Arte Contemporanea di Venezia
Calle Malipiero, San Marco 3073 - Venezia
Per info:
info@aplusa.it / www.aplusa.it
Per info:
toolkitfestival@gmail.com /http://toolkitfestival.tumblr.com/ www.facebook.com/Tool Kitfestival
per maggiori informazioni e richiedere gratuitamente il pdf del catalogo:
toolkitfestival@gmail.com
Gli artisti che hanno preso parte al Tool_Kit Festival sono: Abusers, Artereazione, Ascolti Visivi,
Aurora Meccanica, bild, Mario Ciaramitaro, Daniela D'Andrea, Ditroppo, Fannullare, Andrea
Fincato, Gastrovisione, Francesco Liggieri, Johann Merrich + Belinda Frank + Chironomia,
MU(c)Ca, Gianfranco Pulitano, Sacrocuoreconnection, Anis Saraci, Claire Scoville, Teatrino
Elettrico, Valerio Veneruso, Videotrope.
INCONTRO CON BOTTO&BRUNO AL FORUM NAZIONALE DI GEMINE MUSE 2010 Pubblicato online il 15/12/2010 per Festival Arte Contemporanea di Faenza
e
Sono già passati dieci anni da quando Gemine Muse è nata a Padova da un’idea di Virginia Baradel e Giuliano Pisani. L’idea originaria di Gemine Muse è stata quella di creare un dialogo tra arte contemporanea e arte storicizzata, mettendo a confronto i giovani artisti con le grandi opere del passato e le architetture museali.
Da lì la manifestazione si è evoluta, andando a coinvolgere sempre più città e spazi diversi al di fuori dei musei, diventando così un gradino di passaggio importante sia per i giovani artisti che per i giovani curatori.
Il Forum Nazionale di Gemine Muse si è realizzato a Padova in due giornate di incontri: la prima in cui si sono messe a confronto le diverse esperienze delle molte città che vi hanno preso parte negli ultimi due anni; la seconda, invece, si è sviluppata in un incontro-conferenza tra Botto&Bruno e gli artisti e curatori di Gemine Muse, una mattinata di scambio intellettuale e di reale apertura da parte del duo nel raccontare la propria esperienza artistica.
L’incontro con Botto&Bruno diviene il presupposto per questo articolo, in cui si vuole proporre una diversa lettura del loro lavoro, nata da una riflessione sulla mattinata in loro compagnia e quindi da un reale confronto con la coppia artistica.
Come ben si sa, protagonista dell’opera di Botto&Bruno sia nei video, che nelle fotografie, che nelle installazioni è la periferia, soprattutto quella di Torino, dove loro due sono nati e cresciuti, e dove tuttora vivono, in un rimando continuo di intrecci tra biografia e pratica artistica.
Il loro costante fotografare angoli di periferia è solamente il presupposto iniziale per il lavoro finito, quasi uno studio preparatorio il cui frutto si tramuta sostanzialmente in un reale archivio di immagini urbane da riassemblare, ristrutturare e destrutturare per creare poi le “opere” finite.
L’importanza del lavoro analogico e dell’effettivo intervento manuale diviene la caratteristica peculiare dei loro lavori. La lentezza nella realizzazione derivante dall’utilizzo del disegno, del cutter e del collage tra i pezzi fotografati, si tramuta poi in ciò che produce quella energia “interna” che, nel momento del lavoro finito, viene sprigionata grazie agli accostamenti cromatici composti spesso da colori aciduli e chiaramente artificiali.
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Anche nel caso dei loro video, si può parlare di un intervento manuale forte da parte degli artisti, dove l’alta definizione e la postproduzione producono quel velo di idilliaco, “fantastico” e poetico tipico dei loro lavori.
Questo procedimento si ribalta completamente nel caso dell’ultimo loro video The Playground , esposto sempre a Padova alla mostra Art//Tube nello stesso periodo della loro presenza a questo convegno. In questo caso la postproduzione diminuisce e si riduce al grado zero, divenendo una ripresa della realtà, di quello che Botto&Bruno vedono accadere dalla loro finestra, dove emergono i pixel della bassa definizione che dichiarano l’autenticità del loro sguardo tipicamente urbano su di un campo da gioco. Si trasformano in osservatori meticolosi di ciò che accade al di fuori e, perciò, diventano realistici, cogliendo così in maniera totale lo spirito della mostra dove si voleva confrontare il video amatoriale con quello d’artista.
E’ sul termine urbano che vorrei soffermarmi, l’arte di Botto&Bruno è un’arte urbana, che coglie l’essenza delle città e la esprime in immagini dal forte impatto visivo e dalla liricità intrinseca. Liricità perché raccontano di angoli, di luoghi e di personaggi, quei personaggi senza volto che sembrano caratterizzati dall’incomunicabilità, ma che in realtà creano all’interno dell’immagine un silenzio assordante che parla del loro vissuto.
Per capire questi lavori bisogna quindi entrare nei meccanismi della street art, nella forza di un luogo, nel contestualizzarvi una scritta o, meglio in questo caso, un personaggio.
Così come lo street artist sceglie un muro o un vagone dove intervenire perché “lo chiama”, così è in loro, dove la scelta del luogo diviene essa stessa la protagonista del fare artistico, dove è l’obbiettivo della macchina che sceglie il luogo da rielaborare e poi far rivivere.

Metropolitana di Poggioreale.
Mi riferisco alla Metropolitana di Poggioreale, in cui Botto&Bruno sono stati chiamati a intervenire, o ad un lavoro molto precedente a questo come quello al Bullet Space a New York, è così che le loro foto ingigantite divengono un sentiero da percorrere e guardare mentre vi si cammina o vi si scorre di fianco. Nel caso delle grandi installazioni, il loro lavoro deve essere attraversato per essere totalmente vissuto ed esperenziato; come nel caso della metropolitana, appunto, dove è stato creato un collage sul posto, un collage urbano dove la poeticità del loro lavoro si è relazionata con i tunnel, generando così un lavoro di accompagnamento, un lavoro che si è totalmente relazionato con l’architettura divenendone parte.
Penso a questo accompagnamento, a queste incredibili visioni ideate come delle reali inquadrature, che creano degli spezzoni di realtà totalmente cinematografici, rimembranti per molti aspetti le stesse inquadrature, tematiche e tecniche del cinema di Gus Van Sant.
Parlando di arte urbana e di metropolitana il paragone da farsi è con il magnifico Paranoid Park, qui assunto come esempio. Il continuo percorso e passaggio richiesto dai lavori di Botto&Bruno è assimilabile alle inquadrature di Van Sant che spesso riprendono il personaggio da dietro accompagnandolo nella storia, e se si pensa soprattutto ai dialoghi dei suoi film, che sono quasi inesistenti ed inutili (Elephant e Last Days ne sono praticamente privi) in realtà assordano e comunicano come i personaggi di Botto&Bruno, che guarda caso spesso sono adolescenti incappucciati. I rimandi sono davvero molti, e la scelta della musica, sempre fondamentale sia nel caso dei film di Gas Van Sant che in Botto&Bruno dove è sempre e comunque presente, nonché realizzata da loro, diviene la colonna sonora di questo silenzio.
Un silenzio malinconico, da intendersi però nell’accezione più alta del termine: una malinconia intellettuale che genera riflessione.
Francamente sentire continuamente parlare dei non-luoghi di Marc Augé quando ci si riferisce a Botto&Bruno ha stancato. Mai più luogo è stato più forte di quelli rappresentati da loro, luoghi di passaggio, di vita, di gioco e luoghi mentali, ma quindi pur sempre luoghi.
Giada Pellicari
Sono già passati dieci anni da quando Gemine Muse è nata a Padova da un’idea di Virginia Baradel e Giuliano Pisani. L’idea originaria di Gemine Muse è stata quella di creare un dialogo tra arte contemporanea e arte storicizzata, mettendo a confronto i giovani artisti con le grandi opere del passato e le architetture museali.
Da lì la manifestazione si è evoluta, andando a coinvolgere sempre più città e spazi diversi al di fuori dei musei, diventando così un gradino di passaggio importante sia per i giovani artisti che per i giovani curatori.
Il Forum Nazionale di Gemine Muse si è realizzato a Padova in due giornate di incontri: la prima in cui si sono messe a confronto le diverse esperienze delle molte città che vi hanno preso parte negli ultimi due anni; la seconda, invece, si è sviluppata in un incontro-conferenza tra Botto&Bruno e gli artisti e curatori di Gemine Muse, una mattinata di scambio intellettuale e di reale apertura da parte del duo nel raccontare la propria esperienza artistica.
L’incontro con Botto&Bruno diviene il presupposto per questo articolo, in cui si vuole proporre una diversa lettura del loro lavoro, nata da una riflessione sulla mattinata in loro compagnia e quindi da un reale confronto con la coppia artistica.
Come ben si sa, protagonista dell’opera di Botto&Bruno sia nei video, che nelle fotografie, che nelle installazioni è la periferia, soprattutto quella di Torino, dove loro due sono nati e cresciuti, e dove tuttora vivono, in un rimando continuo di intrecci tra biografia e pratica artistica.
Il loro costante fotografare angoli di periferia è solamente il presupposto iniziale per il lavoro finito, quasi uno studio preparatorio il cui frutto si tramuta sostanzialmente in un reale archivio di immagini urbane da riassemblare, ristrutturare e destrutturare per creare poi le “opere” finite.
L’importanza del lavoro analogico e dell’effettivo intervento manuale diviene la caratteristica peculiare dei loro lavori. La lentezza nella realizzazione derivante dall’utilizzo del disegno, del cutter e del collage tra i pezzi fotografati, si tramuta poi in ciò che produce quella energia “interna” che, nel momento del lavoro finito, viene sprigionata grazie agli accostamenti cromatici composti spesso da colori aciduli e chiaramente artificiali.
Questo procedimento si ribalta completamente nel caso dell’ultimo loro video The Playground , esposto sempre a Padova alla mostra Art//Tube nello stesso periodo della loro presenza a questo convegno. In questo caso la postproduzione diminuisce e si riduce al grado zero, divenendo una ripresa della realtà, di quello che Botto&Bruno vedono accadere dalla loro finestra, dove emergono i pixel della bassa definizione che dichiarano l’autenticità del loro sguardo tipicamente urbano su di un campo da gioco. Si trasformano in osservatori meticolosi di ciò che accade al di fuori e, perciò, diventano realistici, cogliendo così in maniera totale lo spirito della mostra dove si voleva confrontare il video amatoriale con quello d’artista.
E’ sul termine urbano che vorrei soffermarmi, l’arte di Botto&Bruno è un’arte urbana, che coglie l’essenza delle città e la esprime in immagini dal forte impatto visivo e dalla liricità intrinseca. Liricità perché raccontano di angoli, di luoghi e di personaggi, quei personaggi senza volto che sembrano caratterizzati dall’incomunicabilità, ma che in realtà creano all’interno dell’immagine un silenzio assordante che parla del loro vissuto.
Per capire questi lavori bisogna quindi entrare nei meccanismi della street art, nella forza di un luogo, nel contestualizzarvi una scritta o, meglio in questo caso, un personaggio.
Così come lo street artist sceglie un muro o un vagone dove intervenire perché “lo chiama”, così è in loro, dove la scelta del luogo diviene essa stessa la protagonista del fare artistico, dove è l’obbiettivo della macchina che sceglie il luogo da rielaborare e poi far rivivere.
Mi riferisco alla Metropolitana di Poggioreale, in cui Botto&Bruno sono stati chiamati a intervenire, o ad un lavoro molto precedente a questo come quello al Bullet Space a New York, è così che le loro foto ingigantite divengono un sentiero da percorrere e guardare mentre vi si cammina o vi si scorre di fianco. Nel caso delle grandi installazioni, il loro lavoro deve essere attraversato per essere totalmente vissuto ed esperenziato; come nel caso della metropolitana, appunto, dove è stato creato un collage sul posto, un collage urbano dove la poeticità del loro lavoro si è relazionata con i tunnel, generando così un lavoro di accompagnamento, un lavoro che si è totalmente relazionato con l’architettura divenendone parte.
Penso a questo accompagnamento, a queste incredibili visioni ideate come delle reali inquadrature, che creano degli spezzoni di realtà totalmente cinematografici, rimembranti per molti aspetti le stesse inquadrature, tematiche e tecniche del cinema di Gus Van Sant.
Parlando di arte urbana e di metropolitana il paragone da farsi è con il magnifico Paranoid Park, qui assunto come esempio. Il continuo percorso e passaggio richiesto dai lavori di Botto&Bruno è assimilabile alle inquadrature di Van Sant che spesso riprendono il personaggio da dietro accompagnandolo nella storia, e se si pensa soprattutto ai dialoghi dei suoi film, che sono quasi inesistenti ed inutili (Elephant e Last Days ne sono praticamente privi) in realtà assordano e comunicano come i personaggi di Botto&Bruno, che guarda caso spesso sono adolescenti incappucciati. I rimandi sono davvero molti, e la scelta della musica, sempre fondamentale sia nel caso dei film di Gas Van Sant che in Botto&Bruno dove è sempre e comunque presente, nonché realizzata da loro, diviene la colonna sonora di questo silenzio.
Un silenzio malinconico, da intendersi però nell’accezione più alta del termine: una malinconia intellettuale che genera riflessione.
Francamente sentire continuamente parlare dei non-luoghi di Marc Augé quando ci si riferisce a Botto&Bruno ha stancato. Mai più luogo è stato più forte di quelli rappresentati da loro, luoghi di passaggio, di vita, di gioco e luoghi mentali, ma quindi pur sempre luoghi.
Giada Pellicari
LET’S PLAY
Venticinque videoartisti contemporanei Articolo Pubblicato il 21/10/2010 per Festival Arte Contemporanea di Faenza http://www.festivalartecontemporanea.it/c-you/blog-2010/gdc-a-padova-let-s-play-venticinque-videoartisti-contemporanei
Nel cuore di Cittadella, inaugura Let’s Play, Venticinque videoartisti contemporanei, una mostra che intende esplorare i diversi linguaggi della videoarte italiana.
Allestita nell’affascinante cornice di Palazzo Pretorio, Let’s Play dialoga anche con la stessa architettura ospitante, instaurando un incontro tra antico e contemporaneo, dove il video si pone come un medium relazionale tra lo spettatore e la struttura architettonica.
Let’s play vuole quindi riflettere sulla videoarte e sulle diverse tipologie di specificità di linguaggio riscontrabili al suo interno, inserendosi in quel filone di ricerca e di studio iniziato con Videoart Yearbook, l’annuario della videoarte italiana, di cui diviene una sorta di spin-off. Uno spin-off molto ben riuscito, in cui la qualità degli artisti e dei video selezionati a partecipare ne diventa un ingrediente ben percepibile. I video presenti, infatti, sono tutti lavori già visti nelle passate edizioni, ma accostati e accorpati insieme creano una mostra totalmente diversa e completa nella sua scelta.
Oltre all’ottima qualità dei lavori presenti, credo che un altro aspetto interessante di Let’s Play sia soprattutto dato dall’allestimento e dalla suddivisione in sale, in cui il momento esperienziale e la fruizione dei video diventano l’aspetto preponderante.
I venticinque video sono stati divisi e inseriti in cinque stanze diverse corrispondenti ad un filone in particolare di videoarte: recupero e utilizzo della sonorità, animazione digitale, plot narrativo e similitudine con la cinematografia, concettualismo, aspetti performativi e corporei.
L’allestimento concepito come una sala cinematografica rende il piano nobile del palazzo una sorta di multisala di videoarte, dove le cinque stanze comunicanti accompagnano lo spettatore in un percorso tra i video di sala in sala, indirizzandolo di volta in volta verso la scelta di un filone di videoarte ben preciso. Queste sale-vasi comunicanti si presentano come un contenitore di filoni non separati completamente e che rispecchiano la compenetrazione di una tipologia con l’altra, completando alla fine un quadro totale.
L’esperienza diviene perciò quella cinematografica, costituita da uno schermo grande, una sala buia ed il posto dove sedersi, concepita da una curatela quasi d’artista dato che ogni sala potrebbe benissimo essere una videoambientazione o una videoinstallazione.
L’importanza dell’esperienza nel momento di fruizione del video d’arte, viene ad esempio sottolineata da Mario Gorni, in cui la grandezza dello schermo e la presenza del buio sono degli ingredienti fondamentali. La stessa cosa è riscontrabile in Myron Krueger, per il quale l’oscurità è un aspetto fondamentale perché aiuta a liberarsi dalle inibizioni. In Let’s Play, a mio avviso, si possono riconoscere queste due idee, dove l’allestimento diviene un aspetto funzionale alla fruizione, e se ogni sala può essere vista come un ambiente, il buio rende maggiore l’ “immersione” ed il contatto con l’“opera” visiva.
Credo che questo accostamento tra videoarte e fruizione cinematografica, inoltre, sia importante per avvicinare il pubblico alla videoarte, portandolo in un habitat riconoscibile e consolidato nell’immaginario collettivo.
L’avvicinamento dello spettatore diviene così una cifra distintiva di questa mostra-studio, dato che è accompagnata anche da una serie di conferenze sulla videoarte, che il pubblico può seguire al fine di avere le conoscenze per una migliore fruizione.
Giada Pellicari
A cura di Alessandra Borgogelli, Paolo Granata, Silvia Grandi e Fabiola Naldi
Dipartimento delle Arti Visive dell'Università di Bologna
Dipartimento delle Arti Visive dell'Università di Bologna
www.fondazionepretorio.it
Yuri Ancarani, Sergia Avveduti, Riccardo Benassi, Davide Bertocchi, Bianco-Valente, Barbara Brugola, Silvia Camporesi, Rita Casdia, Cristian Chironi, Gabriella Ciancimino, Luca Coclite, Raffaella Crispino, Michael Fliri, Riccardo Giacconi, Marco Morandi, Bruno Muzzolini, Massimiliano Nazzi, Christian Niccoli, Daniele Pezzi, Michele Putortì, Giovanna Ricotta, Rivola-Stanovic, Natalia Saurin, Marco Strappato, Diego Zuelli
Yuri Ancarani, Sergia Avveduti, Riccardo Benassi, Davide Bertocchi, Bianco-Valente, Barbara Brugola, Silvia Camporesi, Rita Casdia, Cristian Chironi, Gabriella Ciancimino, Luca Coclite, Raffaella Crispino, Michael Fliri, Riccardo Giacconi, Marco Morandi, Bruno Muzzolini, Massimiliano Nazzi, Christian Niccoli, Daniele Pezzi, Michele Putortì, Giovanna Ricotta, Rivola-Stanovic, Natalia Saurin, Marco Strappato, Diego Zuelli
MAURO STACCIOLI LO SPAZIO NUDO Articolo Pubblicato il 14/10/2010 per Festival Arte Contemporanea di Faenza http://www.festivalartecontemporanea.it/c-you/blog-2010/gdc-a-padova-mauro-staccioli-lo-spazio-nudo-1
Padova 8 Ottobre-14 Novembre 2010
A cura di Chiara Venier, Antonietta Fioretto e Silvia Pegoraro
Catalogo Silvana Editoriale
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Mauro Staccioli, Spazio Obbligato, foto di Sara Busato |
Lo Spazio Nudo, iniziato con la mostra presso l’Associazione Culturale Fioretto Arte Contemporanea nel Maggio scorso, ora continua e si inserisce nell’ambito degli eventi Ram di Padova con dei lavori pensati site specific per alcuni luoghi in particolare della città.
La sera precedente al vernissage, si è svolto al Centro Culturale San Gaetano un interessante incontro con l’artista e con la partecipazione di Guido Bartorelli e Annamaria Sandonà, docenti presso l’Università degli Studi di Padova, organizzato come una chiacchierata-lezione con Staccioli in cui è stato approfondito e discusso il suo lavoro. Da questa conversazione, inserita nella serie di serate “Gli artisti si raccontano”, sono emerse delle tematiche care all’artista e riscontrabili nei lavori di Padova. Da sempre accostato alla Minimal Art, il lavoro di Staccioli in realtà se ne discosta profondamente soprattutto per il coinvolgimento dello spettatore e lo shock percettivo che può causare. I suoi lavori possono essere visti come delle opere-segno che oltre ad una struttura formale possiedono anche un contenuto. Ma è soprattutto la relazione che si instaura con l’ambiente circostante e la relazione con lo spettatore, la cifra più appassionante dell’opera di Staccioli, dove la precarietà apparente dei suoi lavori, che si crea grazie all’equilibrio-disequilibro di queste geometrie pseudo primarie, rende il suo lavoro carico di una dimensione narrativa che si sviluppa sia nello spazio che nel tempo.
Lo Spazio Nudo diviene una sorta di percorso tra i lavori di Staccioli e si sviluppa in quattro punti cardine della città: l’Associazione Culturale Fioretto Arte Contemporanea, il Caffè Pedrocchi, il giardino delle sculture presso il Museo Eremitani e l’Oratorio di San Rocco.
Nell’esposizione all’Associazione Culturale Fioretto Arte Contemporanea, diretta da Antonietta Fioretto, i lavori esposti dialogano tra di loro nelle continue corrispondenze e dissonanze tra le linee curve e rettilinee e riescono a far percepire l’evoluzione del lavoro di Staccioli, soprattutto grazie ai disegni esposti alle pareti. Inoltre, vi si riscontrano “in piccolo” degli elementi e delle cifre stilistiche poi riconoscibili nei lavori site specific, come gli elementi appuntiti, i cerchi che incorniciano una porzione di spazio, i parallelepipedi apparentemente instabili.
Nell’opera di Staccioli, a mio avviso, fin da sempre si possono riscontrare due linee guida: gli “elementi pungenti ed instabili” e le “inquadrature”, intese come delle forme geometriche che inquadrano una porzione di spazio. In entrambi i casi questi lavori si relazionano sia con il pubblico che con l’ambiente, essendo stati pensati appositamente per un luogo. Credo, quindi, che la mostra di Padova ne sia un importante esempio dato che queste due cifre stilistiche sono ben riscontrabili e vanno a confluire insieme nei lavori esposti.
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Mauro Staccioli, Da sinistra a destra, foto di Sara Busato |
Nel giardino delle sculture dei Musei Eremitani, si trova l’opera Varco, dove emergono dalla terra le inconfondibili punte di Staccioli (che rimandano alle opere in galleria), e che quindi si inseriscono nel primo filo conduttore dei suoi lavori. Nel centro di Padova si trova Da Sinistra a Destra, un immenso arco di quindici metri pensato appositamente per il Caffè Pedrocchi, che invece esplica quella corrente definibile come “inquadratura” dello spazio, e che nella sua forma curvilinea contrasta con le forme rettilinee della struttura architettonica del caffè e ne incornicia una parte. Questo lavoro, quindi, dialoga con l’architettura e, inoltre, si relaziona contemporaneamente con la città, dato che va ad installarsi in uno dei simboli più famosi di Padova ed in una zona di incontro dei padovani. Credo che la vera sorpresa e il vero gioiello di questa mostra sia dato dall’installazione presente all’ Oratorio di San Rocco, una piccola chiesa sconsacrata decorata da affreschi cinquecenteschi, perché è qui che queste due correnti vengono a confluire e a relazionarsi tra di loro creando un lavoro magistrale.
Dal Passaggio Obbligato, un grande triangolo in acciaio corten, lo spettatore varca la soglia dell’entrata, ritrovandosi con lo sguardo ad incorniciare ed inquadrare la pala d’altare sul fondo e la stessa installazione di Staccioli. Un attimo-tempo in cui si oltrepassa la soglia e si entra nel vivo del lavoro relazionandosi con esso. All’interno dello spazio della chiesa, infine, si trova Aggregazione di diversi, un’installazione-scultura in ferro zincato, composta da alcune forme trapezoidi e caratteristiche dell’instabilità-disequilibrio dei suoi lavori, quasi un piccolo sentiero in cui poter camminare tra questi elementi.
Giada Pellicari